La storia di ognuno di noi, fundraiser, è proprio la storia della sostenibilità della nostra professione. E’ la storia infinita di un cane che si mangia la coda, e che alcuni pensano di risolvere con la percentuale. E si sbagliano. Occorre analizzare i problemi e far partire delle spirali positive, non inserirsi dentro le spirali negativi e buttare via tutto il proprio know how.
Vi racconto una storia. La storia di una consulenza, la storia di un’organizzazione nonprofit che è brava, forte e coraggiosa, ma che se non incontra dei bravi consulenti, (magari incontra soltanto dei mestieranti) puo’ fare una brutta fine ed entrare nel circolo negativo della percentuale…eccola, con i riferimenti un po’ taroccati per non riconoscerla:
C’è una nobile Buona Causa, ci sono persone che vi si dedicano anima e corpo, ci sono dei sostenitori appassionati, ci sono piazze che recepiscono e che possono recepire ancora di più, ci sono alcune belle iniziative già avviate, idee e voglia di fare.
C’è un ottimo punto di partenza, quindi, una solida base sulla quale costruire un percorso di consolidamento e di sviluppo.
Anche la Mission dell’organizzazione, punto dolente di tanti nostri approcci nel campo del non profit, è chiara e declinata senza incertezze.
Il problema di fondo che aleggia e che getta un’ombra su questo quadro incoraggiante può essere racchiuso in una unica parola: sostenibilità.
Vediamo di inquadrare il tema.
Le aziende profit hanno un metro semplice ed esplicito per misurare la loro performance, dove stanno andando, la loro salute, ed è il bilancio nelle sue varie forme. Alcuni scarni numeri permettono di sintetizzare l’andamento a livello economico e finanziario e costituiscono una prima bussola, ancorché grossolana, che l’imprenditore usa per orientarsi.
Nel mondo del non profit i bilanci non danno praticamente conto della realtà delle organizzazioni, sono bussole rotte. Ed ecco quindi che emergono indicatori diversi, a volte non facili da quantificare, come appunto la sostenibilità.
Intendiamoci, è scontato che le entrate debbano essere sempre uguali o superiori alle uscite, anche nel non profit, altrimenti nel medio termine la organizzazione è destinata a scomparire.
Sono altre però le situazioni che frenano o addirittura portano a regredire.
La mission di una organizzazione non profit è sostenibile quando coloro che costituiscono l’organizzazione stessa riescono a perseguirla pienamente (1) senza penalizzare economicamente la propria vita (2) senza penalizzare qualitativamente la propria vita.
L’organizzazione non profit ha infatti una caratteristica distintiva importante, rispetto alle organizzazioni profit: mentre in un’azienda il dipendente che si reputasse sottopagato non fa altro che andarsene (oppure chiede un aumento di stipendio), e il dipendente che si sentisse frustrato ugualmente se ne andrebbe (o chiederebbe un cambiamento di posizione), in una organizzazione non profit la motivazione, l’entusiasmo, la condivisione della Buona Causa sono tali per cui queste problematiche non emergono, sono spesso represse e trattenute sotto la superficie.
Le persone però sono persone, e i vincoli del “mondo esterno” (il lavoro, il bilancio familiare, gli affetti, ecc.) premono e portano spesso le persone a situazioni di impasse.
In altre parole, nel non profit spesso i limiti “di rottura” sono spostati molto in avanti, ma esistono ugualmente e anche se non ci sono quasi mai strappi plateali, di fatto le organizzazioni alla fine si bloccano perché sono le persone che si trovano in un vicolo cieco e non riescono più ad esprimere la loro carica propulsiva.
Conosciamo parecchi di questi vicoli ciechi e possiamo dire che spesso sono legati ad aspetti economici o sono risolvibili comunque facendo leva su aspetti economici;
in questi casi la raccolta fondi può certamente aiutare.
Altre volte invece entrano in gioco dinamiche psicologiche, motivazionali, relazionali che si collocano al di fuori della sfera economica o ricollegabile ad aspetti economici, e quindi in questi casi bisogna fare ricorso a contromisure di tipo diverso.
Qualche esempio di vicolo cieco per le organizzazioni non profit:
Difficoltà di bilancio (cioè più uscite che entrate);
Difficoltà strategiche (Buona Causa non percepita, strategie poco efficaci, divergenze di opinioni nel CdA);
Difficoltà organizzative (confusione, poca chiarezza, bassa qualità dei servizi);
Difficoltà di crescita (come dimensione o come gamma di attività)
Difficoltà operative (complessità in aumento, volontari demotivati o stanchi, burocrazia opprimente).
In tutti questi casi la dimensione economica è rilevante nel senso che reperendo più fondi si possono sia trovare esperti in grado di supportare ed indirizzare l’organizzazione, sia inserire risorse aggiuntive che diano una mano.
In altre parole la raccolta fondi può risolvere direttamente alcuni problemi di bilancio, ma soprattutto obbliga anche a rimettersi in discussione e a lavorare sulla struttura dell’organizzazione, contribuendo ad appianare tutta una serie di difficoltà di altro tipo; la raccolta fondi quindi in senso lato genera sostenibilità.
Conosciamo molte organizzazioni che vivono fasi di passaggio di questo tipo e pensiamo che si tratti di passaggi fisiologici, inevitabili, che dipendono a volte da mutamenti dell’ambiente esterno e a volte invece sono ricollegabili semplicemente al ciclo di sviluppo di una organizzazione.
Nel caso dell’organizzazione nonprofit le difficoltà che abbiamo percepito sono essenzialmente classificabili come difficoltà organizzative (volontari esausti) e di crescita (ci sono idee ed energie disponibili ma non si è in grado di dare ordine alle cose, cioè di fare un piano).
Cosa fare quindi?
Ricordiamoci sempre: la nostra mission come fundraiser è proprio quella di trovare delle risposte a questa domanda, verificarne l’applicabilità e curarne l’implementazione, la nostra mission NON è cercare soldi…quello viene dopo!