Avranno anche tante debolezze ideologiche, ma una cosa degli americani va detta: quando si tratta di donare a fondo perduto, sono meno diffidenti di noi. Da star come Sean Penn, impegnato per aiutare le vittime dell’uragano Katrina e i terremotati di Haiti, a miliardari come Bill Gates e Warren Buffett, che lasceranno l’eredità non alla famiglia ma a fondazioni benefiche, per gli statunitensi versare soldi senza poter controllare il modo in cui verranno gestiti è una cosa normale. La donazione a enti e associazioni, per loro, non equivale a una possibile truffa, ma è l’essenza stessa del fare beneficienza, perché disinteressata. I soggetti danarosi non mancano certo in Europa, ma quasi mai devolvono il patrimonio a organizzazioni di questo tipo. E quando lo fanno, come nel caso del patron dell’Ikea Mel Simon, a spingerli è più che altro la scarsa considerazione dei legittimi eredi.
Quello che però non tutti sanno è che anche i poveri, negli Usa, fanno molta beneficienza a enti no profit. L’università di Berkeley ha addirittura dimostrato che questo tipo di generosità è un valore che appartiene più a loro che ai miliardari. E questo perché, spiegano gli scienziati sul prestigioso Journal of Personality and Social Psychology, chi ha poco da perdere si fida di più, e la fiducia è un elemento indispensabile quando si donano i propri risparmi a chi non si conosce personalmente.
Fiducia nel prossimo e magnanimità sono, secondo gli studiosi californiani, valori direttamente proporzionali: chi ha l’uno possiede anche l’altra, indipendentemente da status sociale, geni e cultura di appartenenza. Il ricercatore Paul Piff, tra i massimi esperti americani di psicologia sociale, ha sottoposto 115 volontari a un “trust game”, uno dei tre principali test della teoria dei giochi, dimostrando che proprio chi è meno abbiente è disposto a rischiare per aiutare economicamente un’altra persona. Pur non conoscendola e non sapendo come userà quel denaro.
Nel povero manca la paura – tipica dei ricchi – di perdere tutto e venire raggirato. Piff e il suo team lo hanno capito chiedendo ai volontari di decidere se donare o meno a degli sconosciuti 10 gettoni di presenza, che al termine dell’esperimento sarebbero stati convertiti in denaro. I più generosi sono stati proprio i più poveri, mentre i vontari benestanti, educati dalla famiglia alla diffidenza, hanno tenuto per sè la maggior parte dei gettoni. In particolare, il 2,1% degli intervistati ricchi ha dichiarato che avrebbe volentieri donato buona parte dei propri soldi, contro il 5,6% dei volontari di basso ceto.
La ricerca della University of California di Berkeley è la prima del genere mai realizzata e, a differenza di altri studi 1, mette in evidenza un particolare aspetto della generosità, legato all’incertezza totale del buon esito del gesto e alla capacità di fidarsi del prossimo. E’ quindi molto più probabile che sia un povero ad adottare a distanza un bambino che non un ricco, proprio perché quest’ultimo è stato educato al sospetto e alla conservazione del patrimonio dalle minacce esterne.
“E non è neppure un caso – spiega il professor Paolo Legrenzi, professore ordinario di Psicologia cognitiva all’Università IUAV di Venezia e autore di Neuro-mania. Il cervello non spiega chi siamo (Il Mulino, 2009) – che i miliardari più generosi siano tutti americani, perché la cultura statunitense è più abituata al rischio e a fidarsi del prossimo. Da noi, in Europa e soprattutto in Italia, è invece diffusa l’idea che tutto ciò che non si conosce rappresenti una minaccia e che l’obiettivo principale del prossimo sia quello di truffarci”.
Legrenzi sta per pubblicare un libro di psicologia economica in cui un capitolo sarà dedicato proprio al rapporto tra fiducia e denaro. “Questa ricerca è particolarmente interessante – spiega – perché i dati sono stati raccolti con un trust game, un gioco finalizzato a rilevare il livello di fiducia dei partecipanti. Il ricercatore non ha fatto un sondaggio o un’inchiesta ma ha voluto verificare il rapporto tra fiducia e generosità, dimostrando che i più generosi sono anche i soggetti più umili. Quelli con una vita di relazione più ampia, meno abituati a vedere il prossimo come un nemico o un potenziale parassita”.
Il professore spiega anche che esistono quattro tipologie di rapporto tra soldi e fiducia: la fiducia ben riposta, la fiducia mal riposta, la sfiducia ben riposta e la sfiducia mal riposta. L’appartenenza a una categoria piuttosto che a un’altra determina il nostro atteggiamento mentale nei confronti degli altri e del denaro. “E generalmente – spiega l’autore di Non occorre essere stupidi per fare sciocchezze (Il Mulino, 2010) – chi non si fida molto degli altri al trust game risulta taccagno. Chi non si fida mai fa una sciocchezza perché, pur di non commettere errori, si prima di molte possibilità. La differenza tra sciocchezza ed errore è che la prima esclude tutte le variabili, sia quelle negative che positive, mentre l’errore è indispensabile per crescere, anche economicamente. Chi è ricco fa molte sciocchezze, chi è povero molti errori”.
Sarà dunque per questo che, spesso, noi italiani offriamo la cena a intere tavolate di amici ma non siamo capaci di donare 10 euro a un’associazione no profit. E che dire di quel nostro conoscente pieno di soldi che non dà mai l’elemosina, e di quell’altro, precario, che ogni anno dona 50 euro ai bastardini del canile? E’ un problema di fiducia, dicono gli scienziati. E quindi, in senso più ampio, anche di sensibilità. [Foto di shawnlzea sotto licenza Creative Commons]