9 Febbraio 2021

Non scrivo per mestiere, scrivo per me stesso

Non scrivo per mestiere, anche se lo faccio ormai più frequentemente di una volta. 

Non ho forse mai avuto un mestiere, a parte quello di vivere (citando Pavese), avendo studiato economia e poi finendo col fare qualcosa di inerente il fundraising: parola difficile da pronunciare e dal contenuto difficile da spiegare, proprio nei suoi aspetti più importanti.
 

Ho sempre apprezzato, senza invidiarlo, chi ha un mestiere semplice e chiaro agli occhi di tutti come il mio amico di bicicletta Luca, che fa il fabbro. Lo dico sempre con piacere quando mi chiedono di lui: fa il fabbro, a Civitella. Lavoro artigianale che non può riuscire senza estro, ingegno ed un lungo e necessario apprendimento (lui imparò dal padre, morto giovane).

 

Esiste un mestiere di scrivere? 

Di certo non lo si apprende da qualcuno, a meno di non chiamare in questo modo — “qualcuno” — sconosciuti o figure familiari che ci hanno segnato. Penso agli autori dei libri che ho letto, penso a qualche brava insegnante, anche a mio padre; lui mi correggeva la punteggiatura e anche i paragrafi sin dalla tesi di laurea. Era bello leggere le correzioni ai miei testi, che pure faceva con riluttanza e discrezione, quasi a non voler intervenire sulla mia scrittura. 
 

Scrivere è trovare parole per ciò che è al di là delle parole. 

Un conto è pensare qualcosa, più difficile è dirlo, ancora più difficile scriverlo.
E infatti ogni volta che rileggo poi correggerei ancora, e a un certo devi smettere altrimenti non finisci mai. Perché uno che scrive non dice mai, fino in fondo, quello che vuole dire. E allora vorrebbe rifinire, risistemare, ridire. Meglio.
A volte rileggo i miei libri, come una cosa che vedo per la prima volta.
Non so scrivere a comando (non riesco a fare le Newsletter quindicinali, ho il terrore delle scadenze… e se non mi viene niente da dire… che scrivo?) 
Scrivo quando lo scrivere mi procura un certo senso di “beatitudine” per un’intuizione, per qualcosa che ho visto, letto, vissuto, dedotto dalla realtà. 
 
Scrivere è anche il mio modo per non chiudere il discorso. Come quando vedi che quella cosa non cambierà più, e allora smetti di rispondere a chi ti chiede. Molli. Smettere di parlare è la fine della speranza, è quando le cose ormai non si possono più cambiare, ciò che si è perso e non può più tornare.
 

A volte scrivo d’improvviso…

come se quello che vedo, quello che accade, sia apparentemente improvviso. Accade perché vedo quella cosa. Ma non è così. Forse il passaggio allo scrivere è stato a lungo preparato nella mia testa, e la realtà che incontri te lo fa solo venire fuori. Era dentro, ma poi è venuto fuori, d’improvviso (sembra) ma era già lì da un pezzo. La realtà ti ha solo acceso quello che sapevi già. Lo chiamano inconscio, più o meno. 

 
Questo segnale che suscita nell’inconscio, un’azione può raggiungerci in un angolo qualunque del mio tempo (la domenica? La mattina presto? La sera? A volte in vacanza). Magari anche in un momento in cui ci raccogliamo in noi stessi, o mentre canticchiamo, camminando con il cane, guardando la città. 
 
Ogni volta che capita mi sembra di volare, perché sono riuscito a dire qualcosa che è ben oltre le mie parole. In un certo senso, la mia vita, dopo che sono riuscito a trovare le parole, non è più la stessa.

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