23 Giugno 2022

Il fundraiser vende emozioni fatte a mano?

“La maggior parte delle persone preferirebbe camminare sopra i carboni ardenti piuttosto che chiedere soldi agli altri perché è ampiamente considerato un atto audace e presuntuoso pieno di potenziale imbarazzo”

Questo è quanto dice Richard Levi dell’Alba University ed è una delle citazioni che ultimamente porto sempre con me a convegni e incontri.

Bisogna dunque partire da questo imbarazzo e riuscire a risolvere questo problema: ci è stato  infatti insegnato che chiedere è sbagliato, che chiedere è un errore, che chiedere è imbarazzante, che chiedere non va bene.

Chiedere sembra essere diventato oggi un atto presuntuoso.

Ti potrà sorprendere quello che ti sto per scrivere ma credo veramente che fare il fundraiser è una professione che aiuta le persone a mettere ordine nella propria vita.

Cercherò di guidarti, se avrai la pazienza di leggermi, tra mie esperienze personali, ricerche e teorie economiche per farti capire la differenza che può fare il fundraiser.

Perchè il fundraiser è un artigiano delle emozioni, è colui che “vende” emozioni fatte a mano.

 

La società dell’abbondanza che scambia beni con la felicità

 

Su Netflix ho visto qualche puntata della serie “Facciamo ordine con Marie Kondo”: nelle case dove abitiamo durante la nostra vita passano in media circa 300.000 oggetti, oggi si acquistano il doppio dei beni materiali rispetto a 50 anni fa. Ecco perchè questa serie ha molto successo, perchè abbiamo bisogno di qualcuno che ci insegni come mettere ordine nella nostra vita a partire da quello che acquistiamo.

Alcuni studi sostengono che gli stati depressivi sono direttamente proporzionali al tempo speso su Facebook o Instagram a confrontare la propria vita con quella degli altri: sui social ognuno mette soltanto le parti belle della propria vita, le parti felici e questo genera in coloro che non sono felici o che non hanno una vita sociale attiva un ulteriore stato di depressione di povertà emozionale.

Si genera così una corsa all’acquisto come modalità per essere più vicini a quella ricchezza economica ed emotiva che gli altri mostrano sui social: per cui oggi non basta fare yoga in casa ma faccio yoga nel mezzo di central park, non compro un gelato normale ma un gelato alla canapa e così via.

Questa corsa all’acquisto genera anche un continuo confronto con le altre persone: se possiedo una 500 e il mio vicino di casa ha una Bmw mi sento povero, ma se possiedo una 500 in un paese dove tutti gli altri vanno a piedo o in bicicletta allora mi sento più ricco degli altri.

L’acquisto è diventato una modalità per esprimere il proprio stato sociale: non che fosse una grande novità, la vera novità è che ora l’acquisto è divenuta una modalità per esprimere i propri sentimenti.

Nel 2018 fu fatta una ricerca da Bicitalia in cui gli intervistatori chiedevano alle persone all’uscita dal negozio come mai avessero acquistato quell’oggetto. Il risultato è stato sorprendente: la maggior parte delle persone acquistava dei beni per esprimere la propria amicizia o il proprio amore o affetto ad un’altra persona.

Questa ricerca ci dice che i sentimenti vengono trasferiti alle altre persone tramite dei beni: ad esempio in Italia si spende in media € 41 per dire ad amico che è tuo amico, € 88 per dire ti voglio bene, € 100 per dire ti amo, € 127 per dire ad un’altra persona sei tutto mia/mio, € 197 per chiedere perdono, € 450 per la proposta di matrimonio.

E’ una ricerca che fa impressione perché identifica con chiarezza il costo di ogni sentimento e che certifica come i sentimenti oggi vengono trasferiti attraverso dei prodotti: questo fa sì che la società odierna si configura di fatto come un enorme mercato dei sentimenti e dove tutti cercano di diventare ricchi e famosi per poter permettersi di comprare quei sentimenti di cui hanno bisogno.

 

Il paradosso della felicità e il fundraising

 

Nel 1974 Easterlin mise la felicità e la ricchezza su due assi cartesiani:
chi è molto povero non ha capacità di acquisto è più difficile che sia felice mentre chi è ricco almeno inizialmente registra un aumento della felicità proporzionale all’aumento della ricchezza.
In realtà andando avanti nel tempo anche la persona ricca registra un calo della propria felicità.

paradosso_felicità_fundraising

Quale ragionamento ci sta dietro?
Prima dell’acquisto io sono triste e  infelice perché in un qualche modo vedo la necessità di avere quell’oggetto che desidero.
Lo voglio perché mi confronto con gli altri e l’input che ricevo è quello di “comprare comprare comprare” al fine di raggiungere quello stadio di felicità che chi ha quell’oggetto credo abbia.

Una volta fatto l’acquisto sono felice, anche se è uno stato che dura poco e che ha necessità di un nuovo acquisto per essere “rinnovato”.

Anche io ho fatto un’esperienza simile: ero a New York, a Brooklyn in fila per acquistare l’Iphone 8. Ero in quella fila perché volevo verificare personalmente l’esperienza di coloro che attendono ore per  acquistare un telefono quando potrebbero benissimo farselo consegnare a casa attendendo 8-10 giorni in più.

Parlando con le persone in fila ho potuto constatare che la gioia dell’acquisto era il fattore scatenante il momento di felicità: persino la commessa mi chiese se ero entusiasta dell’acquisto. Io in verità risposi che non lo ero più di tanto…..

L’acquisto dell’Iphone 8 per è stato per me come quando andai a visitare il Museo del comunismo, sotto la statua di Marx c‘è scritto “Un sogno diventato un incubo”: questa è la straordinaria definizione sia del comunismo che del consumismo occidentale purtroppo influenzato in questo dal grave errore che fece Jeremy Bentham.

Bentham è stato l’inventore dell’utilitarismo: sosteneva che massimizzando l’utilità si massimizza anche la felicità.

Bentham purtroppo sbagliava perché la funzione di utilità tiene conto solo del rapporto utilitaristico che ho con le cose.

Se ho bisogno di cibo, vestiti, un nuovo cappotto o un’auto nuova sono tutti beni / servizi che possono servire per vivere e che hanno un basso costo di attivazione ovvero una volta comprate le mangio, le accendo o lo utilizzo.

Nel nonprofit e nel fundraising introduciamo invece il concetto di rapporto con le persone che non può seguire la logica di Bentham. Il costo di attivazione nei rapporti interpersonali è alto: ogni volta che devo fare quella riunione con il personale cerco di rinviarla perchè per avere una relazione devo per forza parlare e interagire con le persone.

Aristotele, nella sua etica nicomachea, scriveva che non si può essere felici da soli, bisogna almeno essere in due: per questo nel nonprofit lo sforzo maggiore è quello di iniziare un rapporto con l’altra persona e anche non ridurre l’altra persona ad una cosa.

Avrai certamente sentito il detto di ogni nonna “i soldi non fanno la felicità”  ed è esattamente così: l’acquisto di un bene/servizio non garantisce la felicità, è utile a far crescere la felicità ma fino ad un certo punto.

 

Il rapporto con gli altri è il futuro del fundraiser

 

Il rischio sotteso al legare la propria felicità con l’acquisto di beni è identificare la propria felicità con il possesso di beni: il motivo della mia esistenza invece è il rapporto con gli altri. Il destino dell’uomo è l’incontro con l’altro e questo perché la mia soddisfazione viene dalla soddisfazione dell’altra persona.

Per cui come fundraiser devi tenere a mente che chiedere una donazione, chiedere soldi non è un rapporto di scambio economico ma è, come dice Donald Kane, un’esperienza relazionale profonda dove si fanno felici le persone. Quando si dona il corpo rilascia dopamina che agisce sul neurotrasmettitore che a sua volta regola il centro cerebrale della felicità e del piacere.

E’ lo stesso meccanismo che accade quando compriamo, la stessa sensazione di quando avevo finalmente in mano l’Iphone nuovo in quanto è la  gioia di aver potuto finalmente soddisfare un desiderio e un bisogno. E’ lo stesso meccanismo ma è allo stesso tempo completamente diverso.

Donare non è solamente dare un significato al proprio denaro (dono per una nobile causa) ma far donare vuol dire far vivere al donatore un’esperienza di significato profondo che genera un livello più alto di felicità.

Il fundraiser in tutto questo cosa c’entra?

Il fundraiser è proprio quello che in qualche modo è capace di generare quella felicità che nasce dall’adesione del donatore alla causa.

La decisione di donare o di astenersi dal farlo non è nelle mani o nella testa di chi dona ma per lo più nelle mani del fundraiser: le donazioni sono quasi sempre attivate dal fundraiser, non nascono dal nulla.

Se ti guardi intorno vedi tanti immobili con targhe di ringraziamento per chi li ha donati o ha contribuito a ristrutturarli, ma non vedi mai una targa di ringraziamento al fundraiser. Il fundraiser invece deve essere messo in risalto perchè è un intermediario importante che crea connessioni fra le persone e nel farlo costruisce felicità trasformando la vita dei donatori.

Per portare € 1 di donazioni al nonprofit si spendono 0,24 centesimo di euro e quell’euro non è una donazione immediata ma ci vuole tempo per costruire rapporti con i donatori. Per questo il ruolo del fundraiser è quanto più importante e sempre più da valorizzare da parte dei consigli di amministrazione degli enti nonprofit.

Il fundraiser è colui che non ti guida verso un acquisto compulsivo che ti porterà al paradosso della felicità ma è colui che ti  suggerisce di donare.

Come dice kierkegaard “la porta della felicità si apre solo verso l’esterno può essere dischiusa solo andando fuori di sé” questa è per me la definizione di fundraising.

 

Un fatto personale: chiedere è una forza delicata

 

Concludo questo articolo con un fatto personale: negli ultimi anni della sua vita mio padre, Leonardo, si era dedicato alla creazione di un Museo interreligioso a Bertinoro, museo a cui dedicò anima e corpo anche quando era già malato e che fu inaugurato 5 giorni dopo la sua morte.

Leggi cosa scriveva un suo collaboratore “Chi l’ha conosciuto e ha lavorato con lui ben sa che il Senatore, quando ti aveva chiesto una cosa e la voleva, era deciso e martellante: ti arrivava una telefonata che cominciava con una presentazione decisa: “Sono Melandri..” proclamava con una cantilena tutta sua, con cui voleva dirti che dovevi fargli avere la cosa che ti aveva chiesto e che tu gli avevi promesso. Il tono esprimeva al tempo stesso richiesta insistente, benevolo rimprovero e seducente sollecitazione, in un modo al quale tu non potevi resistere e non rispondere, assecondandolo. Era la forza delicata che aveva in sè”.

Io credo che ogni fundraiser dovrebbe avere in sé questa stessa forza che aveva mio padre, una forza delicatamente insistente e allo stesso tempo seducente del chiedere, perchè il fundraising è un atto che può veramente trasformare la società.

 

 

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